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Il punto in cui siamo

Fantapolitica da Bar Sport

[Un testo del febbraio 2025]

Mi spaventa il punto a cui siamo arrivati, con l’AfD alle porte del Bundesregierung, Trump già comodamente insediato alla Casa Bianca e, soprattutto – più di tutto – Elon Musk comodissimo nei panni di una versione reale e aggiornata del buon vecchio scienziato pazzo della tradizione fantascientifica. (No, non nominerò anche Giorgia Meloni.)

Ma mi spaventano molto di più i discorsi delle persone che ho intorno, quelle che mi assomigliano: abbastanza colte, come minimo progressiste, probabilmente ben intenzionate. Perché non mi sembra abbiano colto l'aspetto più preoccupante dei tempi che siamo vivendo: e cioè che il problema non è né Trump né i neofascisti né tantomeno Elon Musk, ma noi stessi. Noi, cittadini abbastanza colti e non solo progressisti del cosiddetto occidente, oltre che di molti sud del mondo. È un problema, perché non vedere il problema impedisce di trovare soluzioni.

Tre anni fa, nei tre o quattro mesi che ho trascorso negli Stati Uniti, mi ha molto stupito scoprire che Trump era tutt'altro che politicamente morto e che il suo sostegno in molti settori – non solo popolari e non solo della cosiddetta America profonda – era di fatto cresciuto, rivelando quanto è vera la tanto chiacchierata postverità. Uno dei suoi attributi principali, l’impermeabilità al fact checking, rende quasi impossibile prevedere cos’è e cosa non è “di buonsenso” per il nostro vicino di casa, nostro zio o – ahimè, a volte – persino per noi stesse.

Ma mi ha stupito ancora di più l'atteggiamento di molti liberals e progressisti con iquali mi confrontavo negli ambienti universitari da Ivy league nei quali mi muovevo. (Ok, forse non avrebbe dovuto stupirmi, ma sono un ingenuo.) La loro lettura della situazione si potrebbe riassumere più o meno così: la gente è ignorante, si lascia abbindolare e, per questo, vota contro il suo stesso interesse. Una lettura politica che può fare solo chi ignora del tutto la storia del secolo passato e dell'inizio del nostro, ripetendo analisi e riproponendo ricette politiche di un'ingenuità davvero disarmante.

Non voglio raccontare qui il trauma che è stato per me, dopo aver passato diversi giorni accerchiato dall'incredibile affetto di un'intera colonia di parenti figli dell'emigrazione italiana degli anni 1930 nella regione dei Grandi Laghi, scoprire che quelle persone empatiche, abbastanza colte – anche se forse un po’ troppo religiose – e profondamente coscienti della loro origine di diasporica, sono tutte convintissime votanti di Trump. Però c'è un episodio che voglio riportare.

Tornando da uno dei pranzi con i miei ritrovati parenti abbiamo attraversato una zona puntellata di fattorie Amish. Un carro, con una famiglia bionda apparentemente uscita da un film western degli anni 1940, ci ha costretti a camminare lentamente per circa 1 km. Io ero incuriosito da quell’incontro con la più conservatrice delle Americhe, ma la mia parente conservatrice continuava invece a parlarmi delle meraviglie dell’ingegneria informatica statunitense e di come avrebbe contribuito a creare un mondo migliore e più sicuro.

Il contrasto tra queste due diversissime ma radicali forme di conservatorismo che, tanto in Europa come nelle metropoli liberal degli stessi Stati Uniti, associamo alla cosiddetta America profonda, mi ha dato il colpo di grazia. (Già ero sconvolto, vi ricordo, dalla scoperta, avvenuta solo poche ore prima, del fervido trumpismo dei miei meravigliosi parenti… e dico meravigliosi senza la minima ironia: vi voglio bene!) All’improvviso, la lettura del trumpismo che avevo fatto dall’Europa negli anni della sua prima presidenza era crollata, trascinando con sé anche le idee che avevo sulla crescita delle destre nostrane. Ammesso che le gradazioni del conservatorismo sono infinite, sono davvero gli aspetti più conservatori della politica delle nuove destre a doverci preoccupare di più? Quell’alone rancido che ci sale alle narici quando vediamo la scriminatura di Trump, quel sapore fascio che emanano i concetti di muro, deportazione, razza, omofobia, patriarcato, autarchia protezionista?

Credo che la risposta sia no. Già allora gli analisti più attenti, tra i quali come avrete intuito non mi includo, avevano da tempo messo a fuoco che è la capacità delle nuove destre di interpretare il presente a permetterne il successo: la lettura – opportunistica, utilitaristica, anche semplicistica se vogliamo – che sanno fare dei processi storici nei quali siamo immersi. Gli aspetti conservatori e reazionari delle nuove destre (che, per inciso, sono gli stessi delle vecchie destre) sono abominevoli e dannosissimi ma, più che il problema, sono una sua emanazione. Allora qual è il problema?

Non pretendo di avere una risposta, ma mi permetto qualche riflessione. Forse sono generalizzazioni da Bar Sport, ma non è proprio la mancanza di una prospettiva d’insieme la parte più pericolosa della trappola? Chiediamo quindi un amaro internazionale e, con il ronzio della telecronaca che esce dalla televisione appesa al muro, spariamo sentenze dall’alto dello sgabello più autorevole del bancone.

photo by Dario Ranocchiari, licence (CC BY-NC-SA)

La fine del comunismo ha squilibrato un mondo già in bilico. A partire dalla Seconda Guerra Mondiale, il suo ruolo storico è stato di contrappeso al capitalismo. Qui da noi, il marxismo è stato una forza insita nella modernità occidentale, un’ideologia e un movimento globale che ha bilanciato, da dentro, le democrazie liberali e, da fuori, la voracità capitalista. Ha generato mostri – quanto e forse più delle democrazie capitaliste –, e la sua attuazione politica è stata sempre un fallimento, più spesso per ragioni interne che per sabotaggio esterno. Ma ha avuto un ruolo chiave nell’equilibrio del sistema moderno occidentale, rendendolo un po' più giusto. Il suo crollo ha liberato gli impulsi più torbidi del capitalismo, che non sono deviazioni ma elementi strutturali. Sono questi impulsi ad aver eroso la democrazia per come la conoscevamo, portandoci alla situazione nella quale ci troviamo. La democrazia è in crisi (anche) perché non può funzionare in un mondo postideologico; le nuove destre l’hanno capito e lavorano attivamente per trasformarla in qualcos’altro.

Di per sé non è un’operazione nuova. La grande innovazione fascista, il dispositivo rivoluzionario del totalitarismo, era già una reazione al mondo che sarebbe venuto: un tentativo di stroncare sul nascere il nuovo ordine politico della democrazia liberale. È vero che il lessico fascista è costruito sull’invettiva e l’insulto, e per questo è spesso difficile distinguere i gradi delle sue gerarchie del disprezzo, ma nel suo vocabolario era “democrazia”, e non “comunismo”, la parolaccia peggiore. “Totalitarismo”, al contrario – questo apporto fondamentale di Mussolini alla lessicografia globale – era la parola più dolce.

Oggi siamo inondati di narrazioni scritte e audiovisive che riconoscono la futurità del totalitarismo fascista. È sufficiente ricordare solo una delle prime: L’uomo nell’alto castello di Philip K. Dick, che per me è il suo romanzo più brutto, ma anche uno dei più visionari. Con la sua consueta lucidità delirante, Dick attraversa ripetutamente la sottile membrana tra fattuale e possibile che
separa l’essere e il non essere del totalitarismo nazifascista come infrastruttura politica del Novecento. È davvero così fragile quella democrazia che per due o tre generazioni ci è sembrata il punto d’arrivo inevitabile di qualunque evoluzione politica? Se persino Asimov, il più buonista e naif degli autori di fantascienza del secolo scorso, deve far ammettere ai suoi personaggi che la democrazia è solo una parentesi nella storia (lo afferma, tra gli altri, Hari Seldon in Fondazione), forse è proprio così.

Con buona pace diGeorge Lucas, Asimov costruisce il suo bulimico ciclo della Fondazione su due assiomi. Il primo: o impero o barbarie. Il secondo: per garantire l’impero, la prospettiva da assumere è quella dell’umanità del futuro. Viene quindi proprio da un convinto democratico dell’ala liberal come lui l’idea – che prima eraletterariamente e filosoficamente inconcepibile – della necessità di mettere a punto un’ingegneria etico-politica basata sulle probabilità statistiche della lunghissima durata. È impressionante la coincidenza ideologica – passatemi l’aggettivo novecentesco – con il più pericoloso, intelligente e visionario dei tecnomagnati attuali. Un po’ Eldon Tyrell e un po’ Hari Seldon, Elon Musk ha persino un nome che non sfigurerebbe in nessun libro di Dick o di Asimov.

Forse lo farebbe, ma proprio solo di nome, in uno di Liu Cixin. Quando Thomas Wade, nel secondo libro della saga della Memoria del futuro, cerca di uccidere l’empatica Cheng Xin perché sa che sarà una Impenetrabile troppo compassionevole e preoccupata più per gli esseri umani che vivono sulla Terra che per quelli che un giorno ci vivranno, oppure quando sviluppa proiettili capaci di distruggere l’esercito dell’ONU ponendo l’umanità sotto il controllo della sua corporazione privata, sta cercando di fare esattamente quello che Musk il visionario crede di star facendo: salvare il futuro. È la logica lungotermista promossa da Toby Ord e, soprattutto, dal giovane e influentissimo filosofo di Oxford William MacAskill.

Prospettiva di successo tra i tecnomagnati attuali, il lungotermismo afferma che gli esseri umani del futuro godono degli stessi diritti di quelli attualmente in vita, e pertanto è un nostro dovere morale garantirne la vita e il benessere. Di più: essendo presumibilmente gli umani del futuro più numerosi di quelli in vita attualmente, in un calcolo costi-benefici, il loro benessere deve avere priorità sul nostro. Anche in quanto a scelte morali, quindi, la prospettiva da assumere in un’ottica di “altruismo effettivo” sarebbe quella del lunghissimo periodo.

Dopo aver letto Che cosa dobbiamo al futuro di MacAskill, Musk ha dichiarato che il libro “è molto vicino alla mia filosofia”. Ed effettivamente sia Wade che Musk – e, mi sembra, anche MacAskill – sono convinti che una qualche forma di capitalismo totalitarista sia lo strumento più efficace che l’umanità abbia a disposizione per assicurarsi la sopravvivenza. Perché possa operare, il primo passo necessario è liberarsi dai vincoli di una moralità inadatta al freddo e indifferente universo che ci circonda. Cosa importa quindi se, smantellando USAID, si condannano a morte milioni di bambini? Fare cassa è una necessità strutturale che, uccidendo pochi milioni oggi, ne salverà miliardi domani. Se, per accelerare lo sviluppo tecnologico che permetterà agli umani del futuro di colonizzare altri mondi, bisogna spremere questo fino all’ultimo idrocarburo e boicottare ogni allarmismo scientifico sul cambiamento climatico, non ne vale forse la pena?

La premessa essenziale di questo modo di pensare è l’accentramento del potere e della ricchezza in mano non a politicanti di mestiere, ma a pochi spietati (proprio nel senso etimologico) e ricchissimi (per necessità di manovra, per carità…) visionari, capaci di prevedere le crisi future e con a disposizione i mezzi per sviluppare le innovazioni necessarie a fargli fronte. Cinquant’anni di letteratura di genere (per non parlare di qualche secolo di imperialismo basato sulle compagnie commerciali) dovrebbero averci preparati a sufficienza per vedere il futuro tecnocorporativo nel quale siamo già entrati… Eppure, noi progressisti e radicali “di sinistra” continuiamo a leggere le destre come forze conservative che difendono il passato, quando non fanno che parlare di conservare mentre innovano. Tutte le armi tecnologiche, dalla staffa del cavallo alla guerra aerea ai social media e ora all’IA, vengono comprese, sviluppate e utilizzate con estrema efficacia dalle destre di tutti tempi. E temute e (inutilmente, anche se magari giustamente) frenate dalle sinistre, che si preoccupano invece per l’impatto che hanno sulle persone e le comunità attuali che sono i tasselli insostituibili della nostra vita sociale.

Il problema, quindi – declamiamo alzandoci dallo sgabello del bancone del Bar Sport, di fronte a una delle comunità essenziali della mia novecentesca vita sociale – è che le destre non ci trascinano indietro, ma avanti. Molto avanti. Le consideriamo arretrate e per questo ridicole, mentre loro svolgono, efficacemente e neanche tanto nell’ombra, tutte le operazioni necessarie ad approfittare delle innovazioni tecnosociali che abbiamo a disposizione per inventarne di nuove. E controllare il futuro.

photo by Dario Ranocchiari, licence (CC BY-NC-SA)

Il problema non è Trump con i suoi giochetti doganali, tutto sommato decimononici anche se non per questo meno catastrofici, ma piuttosto l’ordine nuovo che emerge dalla fila degli invitati d’onore alla sua incoronazione. Il 20 gennaio 2025, in piedi davanti al bancone del Bar Sport, finisco il discorso mostrando alla platea di pensionati, impiegati e transeunti vari la prima pagina del quotidiano già unto e bisunto messo a disposizione dei clienti: Bezos, Pichai, Cook, Zuckerberg e – naturalmente – Musk ci guardano sornioni dalla gigantesca foto del taglio alto.

“Bel sermone, professò”, biascica un tipo appena ho finito di cianciare, mentre mischia le carte tra una mano e l’altra di briscola. Poi sorride e tocca il vicino col gomito: “Anvedi aò ‘ndo semo arivati. Mica me n’ero accorto che er Novecento è finito…”

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